‘Ricordatevi dei vostri capi i quali vi hanno annunziato la parola di Dio. Considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene la fede’(Eb, 13,7)
Siamo immersi nel grande mistero della vita.
Ciascuno di noi è nel mondo inviato da Dio per la realizzazione di una piccola/grande missione, i lineamenti della quale solo Lui conosce.
Ciascuno di noi è una parola di Dio pronunciata nell’eternità, negli abissi della comunione intratrinitaria, una parola che il Padre pronuncia nel Figlio e come il Figlio invia nel tempo perché manifesti un lembo della sua infinita bellezza e bontà.
Si, dobbiamo tutti insieme recuperare la percezione di questa nostra identità di base, questa nostra identità fondamentale che viene prima di ogni compito/vocazione ecclesiale e di ogni ruolo/professione nella società , identità che timbra e da lo stile profondo ad ogni esistenza.
Ognuno di noi è una parola di Dio che esce dal silenzio ed entra nello scorrere dei giorni della storia. Questa parola va letta, interpretata con attenzione spirituale per comprendere ciò che il Padre vuol dirci attraverso l’esserci del fratello.
E’ per questo che oggi, di fronte a questo nostro fratello sacerdote, che ha lasciato la scena di questo mondo per ben altra scena -la Gerusalemme del cielo-, ci interroghiamo; quasi a volere fare una lectio divina della sua vita: che ha da dire a me, a noi questa parola; che ha da dire alla nostra Chiesa. Che cosa il Signore ha voluto comunicare con questa parola, con il suo timbro, con il suo stile; quale la sua piccola/grande personalissima missione.
Certo il sottoscritto tra tutti i presenti, vescovi, sacerdoti, laici che lo hanno conosciuto e amato, è il meno attrezzato per questo esercizio spirituale, ma i contatti avuti in questi mesi, peraltro sempre in ambiente ospedaliero, i colloqui brevi ma intensi, emanavano una sorta di profumo: proprio ieri l’altro in quell’ultimo incontro a tu per tu a poche ore dal suo spegnersi alla luce di questo mondo, incontro durante il quale abbiamo pregato insieme, durante il quale ha ricevuto la SS. Eucaristia e l’Unzione degli Infermi, uscivano dai suoi occhi limpidi le parole del salmo ‘Il Signore è il mio aiuto, non avrò paura. Che cosa può farmi l’uomo?’; ebbene quei contatti mi hanno permesso quasi di subodorare, carpire un poco, il segreto intimo di questo cuore sacerdotale e di cogliere l’unicità della parola ivi contenuta.
‘Ricordatevi dei vostri capi i quali vi hanno annunziato la parola di Dio. Considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene la fede’(Eb, 13,7).
Si, considerando attentamente l’esito finale della sua vita, mi è balzata incontro la terza beatitudine: ‘beati i miti, perché avranno in eredità la terra’. Si, piano piano mi accorgevo di essere di fronte all’uomo della terza beatitudine: la mitezza mi si presentava sempre più nitidamente come l’atteggiamento virtuoso profondo di questo fratello; e a mio avviso è la mitezza la parola identitaria oggi da ricordare di questo ‘capo’, un ‘capo’, ben inteso , nell’accezione tipica della Lettera agli Ebrei: colui che per primo ci ha annunciato l’Evangelo, colui che per primo ci ha introdotto vitalmente nel tesoro delle Divine Scritture, ‘capo’ a cui dobbiamo essere riconoscenti perché tante volte ha spezzato per noi il pane delle Sante Scritture nelle molteplici circostanze del suo ministero pastorale.
La tua vita, fratello carissimo, ci sollecita a ricordare quanto essenziale allo stile cristiano sia la nota della mitezza. Quanti significati si celano in questa parola, quanto è stata amata e vissuta da Gesù che ama autodefinirsi con essa: ‘Imparate da me che sono mite ed umile di cuore’ (Mt 10,29).
Questa parola, πράος, che la lingua italiana traduce con ‘mite’, è tradotta nella lingua spagnola con ‘mansueto’, nella lingua francese con ‘dolce’, nella lingua inglese invece con ‘gentile’, ‘cortese