Diocesi di Pitigliano - Sovana - Orbetello

ORDINAZIONE SACERDOTALE DI DON ALESSANDRO ORTALLI

Chi è o chi deve essere il prete? La domanda ritorna ogni volta che si assiste all’ordinazione di un nuovo sacerdote. Ed è la domanda di cui si è fatto voce lo stesso vescovo Giovanni, sabato 7 settembre, presiedendo in cattedrale la Messa solenne nella quale ha conferito il sacramento dell’Ordine al giovane Alessandro Ortalli. Originario di Schio, dove è nato 34 anni fa, Alessandro dopo un’esperienza fra i cappuccini della Toscana è stato accolto nella nostra Diocesi, dove è giunto due anni fa e nella quale si è inserito con grande naturalezza e semplicità. Lo ha mostrato anche sabato, conservando per tutta la celebrazione un volto sereno, disteso… anzi, proprio felice! La felicità di chi non ha paura di un sì per sempre e che, anzi, lo ha atteso, desiderato e pronunciato con tutto se stesso. A fargli da corona una cinquantina di sacerdoti, che hanno concelebrato l’Eucaristia trasmessa in diretta su Tv9. Tra loro il suo parroco, giunto da Schio, e diversi frati cappuccini toscani che hanno accompagnato Alessandro per un tratto di strada. Quella domanda – chi è il prete? – è come se avesse risuonato, impercettibile – per l’intero rito. Ed è stato il Vescovo, nell’omelia (la pubblichiamo integralmente, da pagina I) a dire chi è il sacerdote e chi deve essere oggi un prete. In primo luogo, è un uomo di relazioni. Non un manager, non un pr, s’intende, ma un uomo che, attingendo dalla relazione principe con Cristo (nella Parola e nei sacramenti), sa mettersi in relazione con il mondo, gioendo con chi gioisce, soffrendo con chi soffre. Ma è anche un uomo che, nel suo stile di vita, deve mostrare cos’è -anzi chi è – la speranza per la quale ha giocato l’esistenza: è Cristo, che per noi si è incarnato, è morto ed è risorto. Ed è colui che sa coniugare la speranza con la pazienza. Che sa uscire a seminare, ma non è detto che veda il raccolto. Tutto questo può e deve essere il prete nella nostra realtà di Chiesa e nella società. Spesso additato, a volte guardato con diffidenza se non con sospetto, altre volte ancora sbeffeggiato (“fare il prete…l’unico modo per avere un lavoro sicuro oggi”, ha scritto qualcuno sui social commentando la notizia della sua ordinazione), ma comunque ancora cercato, soprattutto quando le strettoie della vita mettono di fronte alla verità su noi stessi e abbiamo bisogno di conforto, ma anche di un sano confronto. Il prete è colui che non viaggia con l’orologio in mano. “Non dire mai: ‘Ho furia’” si è raccomandato il vescovo Giovanni, perché “cos’altro di più importante hai da fare di portare Cristo”?
Tutte cose vere, apparentemente scontate, ma che poi nell’andare della vita sappiamo che rischiano anch’esse di sfumare. Perché la routine, l’abitudine prendono tutti: sposi, preti, consacrati. Ogni vocazione corre sempre il rischio dell’abitudinarietà, della ripetitività senza slanci, del meccanicismo, del funzionarismo. E per evitarlo occorre tenere sempre gli occhi su Cristo. E’ stata questa l’altra raccomandazione del Vescovo, che alla fine della celebrazione, prima di impartire la benedizione solenne sul novello prete e sull’assemblea tutta, ha voluto chiamare vicino a sé don Franco Cencioni, in rappresentanza dei tanti preti che, nel tempo, con fedeltà e zelo hanno tenuto fede al loro sì. “Tu – ha detto a don Alessandro – sei prete da mezz’ora, ma qui con noi ce n’è uno che è prete da 74 anni!”, ha evidenziato guardando don Cencioni. A testimoniare, in altre parole, quella successione del ministero che dalla nascita della Chiesa è arrivata a noi e che continua ad affascinare, a chiamare, a offrire un modo di essere servi gioiosi del Vangelo.
Ad animare la celebrazione è stata una nutrita rappresentanza di coristi della corale Puccini e della corale diocesana Gaudete, accompagnati all’organo da Alessandro Mersi. A svolgere il servizio all’altare, oltre ai seminaristi della Diocesi, anche due giovani studenti cappuccini originari del Brasile. Sono in Toscana per un anno, dopo che da alcuni anni la Provincia Toscana dei frati cappuccini ha avviato una collaborazione con la Provincia religiosa del nord est del Brasile, dove dagli anni trenta del ‘900 al giorno della morte (il 31 maggio 1997, a 98 anni) ha vissuto come missionario Frei Damião, ovvero fra’ Damiano da Bozzano, cappuccino lucchese dichiarato venerabile da papa Francesco. Ogni anno, dunque, due frati in procinto di emettere la Professione perpetua, trascorrono un periodo in Toscana, nel convento di San Casciano Val di Pesa, mettendosi poi a disposizione per vivere esperienze di vario genere nella vita cappuccina Anche la loro presenza sabato in cattedrale è stata il segno di quella cattolicità della Chiesa, che davvero si estende per tutta la terra e alla quale ogni prete è inviato.

La celebrazione per l’ordinazione presbiterale di don Alessandro Ortalli è stata l’occasione per il Vescovo di comunicare al clero, riunito in sacrestia al termine della Messa, alcune decisioni relative proprio all’impiego dei sacerdoti nelle parrocchie.

Caro vescovo Rodolfo e tutti voi, fratelli e sorelle, presbiteri, diaconi e soprattutto tu, caro Alessandro, ho appena accolto, confidando nell’aiuto di Dio e di Gesù Cristo nostro salvatore, la richiesta della Chiesa di ordinarti presbitero. Non è una richiesta formale, ma indica una precisa chiamata della Chiesa, nella quale nascono e si sviluppano doni e ministeri diversi per edificare l’unico corpo di Cristo. Il tuo sì personale, per quanto indispensabile, non sarebbe possibile senza il sì della Chiesa. Una Chiesa concreta, caro fratello, fatta di santi e di peccatori; di storie nobili e di storie poco evangeliche. Noi dobbiamo amare questa Chiesa, che ci offre il Vangelo perché anche noi – parafrasando sant’Agostino – “ascoltando crediamo; credendo speriamo e sperando amiamo (cfr. Prima catechesi cristiana).

Nella chiamata di Dio che è stata proclamata, possiamo trovare un filo conduttore che attraversa tutte le tre letture: chiamati per servire.

Isaia: “Lo spirito del Signore è su di me e mi ha inviato a portare il lieto annunzio ai poveri”, mi ha chiamato; San Pietro: “Secondo il dono ricevuto, lo metta a servizio degli altri”; Il Vangelo di Luca: “fate questo in memoria di me”. E per poterlo fare con verità, bisogna assumere lo stile del Maestro, altrimenti è la memoria di un altro, non di Lui!

Una chiamata-vocazione per un ministero, dunque.

Fratelli e sorelle, questo riguarda tutti i cristiani!

Teniamo presenti le parole che accompagnano l’unzione crismale dopo il battesimo: “Egli stesso – dice il celebrante – ti consacra con il crisma di salvezza perché inserito in Cristo, sacerdote, re e profeta, sia sempre membro del suo corpo per la vita eterna» (Rito del battesimo, n° 71). Queste parole sono eco e conseguenza di quanto si prega nella grande Messa del Crisma: “Questa unzione li penetri e li santifichi, perché liberi dalla nativa corruzione, e consacrati tempio della tua gloria, spandano il profumo di una vita santa” Ecco il primo servizio che siamo chiamati a rendere: la testimonianza! Non meravigliatevi allora che in una ordinazione presbiterale si debba partire dal battesimo: non solo perché ogni sacramento si radica in esso, ma perché è partendo dall’essere cristiani – quindi battezzati – che si può riflettere e comprendere il ministero presbiterale. In altre parole, ci insegna la Lumen Gentium “è necessario partire dal popolo di Dio – cioè da tutta la Chiesa – per comprendere il ministero e non dal ministero per comprendere il popolo di Dio”.

L’unzione crismale che verserò sulle tue mani, caro Alessandro, richiama e, anzi, si fonda su un’altra unzione: quella ricevuta il giorno del battesimo e il giorno della cresima. E allora ti rivolgerò la domanda che, caro Alessandro, richiede la disponibilità di te stesso al ministero nel servizio al popolo di Dio.

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Su questa parola di Dio che abbiamo ascoltato voglio fare tre brevi sottolineature. Isaia parla di lieto annuncio ai poveri; di consolare gli afflitti; di veste di lode invece di uno spirito mesto” e il Vangelo, lo sappiamo tutti, significa buona notizia. Una predicazione amara, dunque, priva di speranza non è evangelica. Noi non possiamo portare il Vangelo con il muso: non saremmo credibili! Il mondo ci potrebbe dire – e ce lo dice -: se questo Cristo non ha reso felice te, perché dovrebbe rendere felice me? Attenzione, può essere facile cadere in un grave equivoco su questo: la fede cristiana non è un ottimismo umano, un modo di consolarsi – “andrà tutto bene”, c’era scritto sui balconi durante il covid -; Isaia non dice questo, ma è piuttosto la possibilità e la grazia di fondare la nostra speranza su Gesù. Il profeta Geremia, che ci accompagna in questi giorni nell’ufficio divino, ci dice che esiste una denunzia profetica, ma che per essere tale deve contenere un annuncio di salvezza. Una salvezza realizzata da Gesù! Permettetemi, allora, fratelli, di citare una pagina sublime di sant’Agostino: “Come è diventato Gesù la nostra speranza? Ecco, voi lo avete udito: perché è stato tentato, ha patito, è risorto. Per questo è diventato la nostra speranza!” Che cosa ci diciamo, infatti, quando leggiamo queste cose? Che Dio non vuole la nostra rovina, se per noi ha mandato il Figlio suo ad essere tentato, ad essere crocifisso, a morire e a risorgere. Che Dio non può non tenerci in nessun conto se per noi non ha risparmiato il Figlio suo! E’ così che Egli è diventato la nostra speranza! Tu in lui puoi vedere la tua fatica nella passione e la tua ricompensa. Allora predicare il Vangelo vuol dire avere sempre davanti la persona di nostro Signore Gesù Cristo. E mentre possiamo invocare, giustamente l’umana debolezza per spiegare – non per giustificare – l’incoerenza tra la fede e la sua pratica nella vita concreta (è l’esperienza che facciamo tutti), l’amarezza nella predicazione indica un male più profondo, di chi non sa gioire con chi gioisce e non sa piangere con chi piange, secondo quanto ci insegna Paolo ai romani (cfr Rm 12,15). È la disillusione di chi si chiama fuori gioco, di chi non vuol essere coinvolto… come il servo della parabola, che nasconde il talento ricevuto, per paura del padrone, che è duro e che miete dove non ha seminato (cfr Mt 25,25). La sapienza evangelica insegna che speranza e pazienza devono stare insieme, tanto che nel nuovo testamento queste parole sono sinonimi. La pazienza senza speranza è solo dura rassegnazione a un destino contro il quale è inutile lottare; la speranza senza pazienza, cioè senza affrontare la vita coi suoi problemi, è pura illusione, cioè inganno.

Riflettiamo, dunque, sulla parola presbitero, cioè più anziano, che – è ovvio – non è un riferimento all’età naturale (il salmista può dire: “Ho più senno degli anziani perché osservo i tuoi precetti”, cfr salmo 118), ma un riferimento concreto a quella pazienza e speranza che la fede in Dio, alimentata quotidianamente dall’ascolto della sua Parola, suscita in noi. Per questo, Alessandro, tra poco ti chiederò se vuoi “adempiere degnamente e sapientemente il ministero della Parola nella predicazione del Vangelo e nell’insegnamento della fede cattolica”.

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È essenziale – ci ricorda l’apostolo Pietro – saper creare relazioni per svolgere un buon ministero: “Buoni amministratori della multiforme grazia di Dio” (cfr 1Pt 4,10). “Di particolare importanza per il presbitero – insegna Giovanni Paolo II – è la capacità di relazione con gli altri, credenti o no, per chi è chiamato ad essere responsabile di una comunità e ad essere “uomo di comunione”” (cfr Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis). Certo, non è facile vivere relazioni vere e autentiche: è necessario che il prete giunga a una maturità umana e spirituale tale da non porre se stesso al centro della propria vita… ma fare come il Maestro “che non considerò un tesoro geloso la sua eguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso” (cfr Fil 2,6). Certamente, cari fratelli e sorelle, esortare a dimenticare se stessi nel contesto storico in cui viviamo, con la sua esasperata affermazione dell’individuo – fino a determinare il proprio io al di là della natura, con un narcisismo senza misura – sembra di parlare al vento o di dire cose senza senso…perché fuori di quel che sembra essere il desiderio di oggi. Eppure Evangelii Gaudium ci insegna che occorre un percorso di “liberazione da se stessi, per essere liberi di amare”. È un discorso duro, certo, “ Chi può ascoltarlo?”, abbiamo letto qualche settimana fa i discepoli dire a Gesù, a Cafarnao, con l’evangelista che annota che molti “non andavano più con lui” (cfr Gv 6,60.66). Però noi siamo qui per affermare con l’apostolo Pietro: “«Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (cfr Gv 6,68). In forza di questa fede, caro Alessandro, ti domanderò se vuoi esercitare per tutta la vita il ministero sacerdotale nel grado di presbitero, a servizio del popolo di dio, sotto la guida dello spirito santo.

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Nel racconto dell’ultima cena che abbiamo ascoltato – e che a me piace chiamare la prima cena, perché quella che stiamo celebrando è la ennesima conseguenza – l’evangelista Luca inserisce la discussione fra gli apostoli su chi fosse il più grande. E abbiamo sentito la risposta di Gesù. Ricordiamo che Giovanni narra la lavanda dei piedi, con l’invito del Signore a fare altrettanto, proprio nell’ultima cena. Per questo, consegnandoti il pane e il vino, ti dirò: “renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, e conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo”. Allora diciamocelo ancora una volta, confratelli sacerdoti e diaconi: noi vescovi, preti e diaconi non abbiamo altro scopo, altro ideale, altra speranza che questa: che Cristo sia conosciuto, creduto e sia amato! Il nostro ministero è questo, non altro, anche se possono essere molte le vie per realizzarlo. Molte vie, certo, ma una è assolutamente necessaria: la via sacramentale, specialmente la celebrazione eucaristica e il sacramento della riconciliazione. Per questo a breve ti chiederò: “Vuoi celebrare con devozione e fedeltà i misteri di Cristo secondo la tradizione della Chiesa, specialmente nel sacrificio eucaristico e nel sacramento della riconciliazione, a lode di Dio e per la santificazione del popolo cristiano?” Le altre vie nascono da qui. Il pane eucaristico vuole il pane condiviso, la carità; la riconciliazione più ampia del sacramento ci insegna che essa non coincide solo col confessionale, ma si realizza in un incontro voluto, ricercato, offerto, costruito con amore e con attenzione alla vita reale del fratello e dei suoi bisogni. Il che richiede che quei bisogni dobbiamo ascoltarli per sapere quali sono, per poter dire poi: vai in pace, ti sono rimessi i tuoi peccati.

E questo perdono raggiunge il suo vertice nella celebrazione eucaristica, dove ancora una volta la carne dell’uomo e la carne di Dio -per dirla con Tertulliano – si incontrano e il sangue versato per la remissione dei peccati, diventa il concreto evento di salvezza per colui che chiede perdono. E questa è la più profonda delle relazioni! Chiede un atteggiamento di disponibilità, di ascolto, di silenzio. Non dire mai – Alessandro – “ho furia!” Oppure “ora c’ho da fare”. Questo hai da fare e questo il popolo cristiano si aspetta da te, si aspetta da me, si aspetta da ogni sacerdote!

Ora ricevi l’imposizione delle mani e l’effusione dello spirito santo, perchè anche attraverso il tuo ministero, la moltitudine delle genti riunita in cristo diventi il suo unico popolo, che avrà il compimento nel suo regno (cfr rito di ordinazione). Amen! Amen!